My Beautiful Broken Brain: la recensione del documentario prodotto da David Lynch

di Matteo Marino e Stefano Ventura
6 aprile 2016

Dear Mr. Lynch,
mi chiamo Lotje Sodderland e vivo a Hackney, a Londra.
Due mesi fa ho avuto un’emorragia intracerebrale e ho perso la capacità di leggere e scrivere. Ecco perché le invio un videomessaggio.
È come trovarsi in una nuova dimensione. È un luogo meraviglioso, doloroso, a volte da incubo, nella mia testa. Ma è anche dove posso perdermi completamente, in questo luogo nuovo, così bello e straordinario, che ho scoperto dove una volta c’era il mio cervello. Mi piacerebbe condividerlo con lei, perché credo che le piacerebbe.

My Beautiful Broken Mind - David Lynch & Lotje SodderlandIo e il mio mitologo personale, Stefano Ventura, ci siamo visti l’altra sera su Netflix My Beautiful Broken Brain, un documentario finanziato attraverso Kickstarter che a un certo punto del suo percorso ha incontrato David Lynch. Lynch è rimasto affascinato e colpito dalla vicenda (grazie prima di tutto a questo videomessaggio che Lotje gli ha inviato) al punto da non voler rimanere solo un “personaggio” evocato da Lotje nelle sue riflessioni («A volte mi viene da pensare a David Lynch. È come stare nella Stanza Rossa a Twin Peaks.»): è diventato produttore esecutivo del film.
Essendo Stefano anche uno psicologo e un esperto di filosofia orientale (il documentario inizia con una citazione dalle Upanisad letta in voce off da Lynch stesso), gli ho chiesto di scrivere con me una recensione particolare per un film particolare, una recensione a quattro mani, dove tra l’altro scopriremo le molte connessioni (spesso involontarie, quindi ancora più sorprendenti) tra il documentario e le opere di Lynch…

My Beautiful Broken Brain su Netflix Italia

My Beautiful Broken Brain è soprattutto un videodiario (inframezzato da qualche classica intervista a parenti e amici) attraverso il quale Lotje, una dinamica donna inglese di 34 anni, cerca di documentare e raccontare (prima di tutto a se stessa) la sua nuova e difficile condizione a seguito di un ictus. Gli effetti di questa tragedia sono devastanti ed estranianti: l’area danneggiata del suo cervello, infatti, collegava la corteccia visiva alle aree del linguaggio e delle funzioni esecutive. Lotje si ritrova così interrotta: salva per miracolo dopo un risveglio kafkiano e un intervento neurochirurgico, deve ricominciare da capo ad imparare anche le più semplici cose, come pronunciare le parole che iniziano per “s”. E non è detto che ce la farà.

Sono una neonata e un’adulta allo stesso tempo…

Se da un giorno all’altro ci trovassimo nell’assurda situazione di non saper più leggere pur sapendo scrivere (come a un certo punto scoprirà una stupefatta Lotje, perché leggere e scrivere sono di pertinenza di aree diverse del cervello di cui solo una è danneggiata), o scoprissimo di non poter riconoscere oggetti familiari se si trovano a sinistra del nostro campo visivo, come reagiremmo?

My Beautiful Broken Brain - soggettivaIl docufilm non si limita a raccontare l’interruzione e la difficoltà, non cede alla semplice pietà né indugia sulle manifestazioni più patetiche che la condizione della giovane donna reca con sé – una donna che comunque non si arrende e cerca tutte le soluzioni, anche quelle sperimentali, per recuperare in parte ciò che ha perduto. Lotje sceglie infatti un’altra via, cerca cioè di condividere con gli spettatori l’essenza della sua esperienza. Lo fa con le parole e con le immagini, che spesso sono manipolate per farci vedere, in soggettiva, come vede lei, in maniera più colorata, a volte distorta e sdoppiata, con suoni amplificati e immagini fantasmatiche a un lato dell’inquadratura. Lotje sceglie di comunicare senza filtri l’estraniamento che prova, la condizione di vivere in una realtà in parte familiare, in parte nuova, a tratti inquietante,  l’esperienza di essere se stessa pur non essendolo più. Come in un film di David Lynch, appunto.

Sono ossessionata dall’idea di registrare, di filmare tutto. Non riesco a ricordare più niente. Voglio registrare ogni cosa per darle un senso.

Ai lynchiani non può non venire in mente la celebre battuta di Fred Madison in Strade Perdute, che è tutto il contrario: «Odio le telecamere.  Preferisco ricordare le cose a modo mio». E anche Fred si risveglia come altro da sé…
Lost Highway - Io odio le telecamere
My Beautiful Broken Brain - alfabetoQuesto non è il solo riferimento puramente casuale (e quindi ancora più straniante) alle opere di Lynch presente in My Beautiful Broken Brain. A un certo punto, infatti, vediamo Lotje provare a re-imparare con molta fatica l’alfabeto, e non può non risuonarci in testa la cantilena di The Alphabet, corto del 1968 sull’incubo dell’apprendimento e i cambiamenti del proprio corpo («We’re dealing  with the human form», ci avverte una bocca ripresa al contrario: «Abbiamo a che fare con la forma umana»). Potete vedere tutto il breve cortometraggio qui:

INLAND MINDEssendo un videodiario, come abbiamo detto, My Beautiful Broken Brain è naturalmente pieno di riprese con la webcam, di autoriprese fatte col cellulare, di soggettive invertite in cui Lotje cammina inquadrando il suo volto e la strada che si lascia alle spalle anziché quella che ha davanti. Sono video “selfie” (per usare questo termine odioso ma che ben fotografa la tendenza all’autoscatto come cosa cool), un tipo di ripresa spesso troppo ravvicinato, che deforma involontariamente il volto, simile in qualche modo alle inquadrature digitali e impietose che “schiacciano” Laura Dern in INLAND EMPIRE (anch’esso presente su Netflix) e che forse quindi suggerivano anche lì un’auto-osservazione, un avvicinamento a sé nell’impossibilità di filmare l’infilmabile impero interiore.

Una vista su un mondo interiore. Tutto è alterato, amplificato. È la realtà o è il mio cervello?

Attraverso le domande, insistenti, che Lotje rivolge alla sua telecamera (che non chiama Diane, ma poco ci manca), possiamo tornare a vedere la realtà esterna (e perfino quella interna) così come non siamo abituati a percepirle e probabilmente come non vorremmo che fossero: nuove,  inaspettate,  instabili.

Chi sono io? Sono una persona che ha molti amici, che lavora sodo, viaggia per il mondo, adora leggere. Ma se queste cose all’improvviso si cancellassero… che cosa sarei? Che cosa mi rende me?

Eccola, a un certo punto, la domanda che una volta o l’altra ci siamo posti tutti quanti (e ricorrente nei film di Lynch, almeno per alcuni suoi protagonisti): chi siamo? Che cosa definisce il nostro essere? Sono le nostre azioni, le nostre capacità, le relazioni che coltiviamo? Siamo solo nel nostro cervello? Siamo, in un certo senso, il nostro cervello?  La “mente” è solo una parte del corpo? La malattia di Lotje sembra suggerire che siamo (anche) un insieme di relazioni tra diversi sistemi impersonali, di cui siamo per lo più inconsapevoli: quella che ci sembra una sola attività, come scrivere un sms sul cellulare, è l’insieme di molte singole abilità, come ricordare il significato delle parole, scrivere, riconoscere quello che scriviamo leggendolo, solo per citarne alcune. Quando una relazione tra questi diversi sistemi si interrompe, la realtà si interrompe, o cambia drasticamente. E questo non è vero semplicemente per il nostro cervello, ma per il nostro corpo, e per l’ambiente in cui viviamo. Quindi siamo la somma di tutti questi costanti collegamenti, come fossimo una trama che si tesse di continuo? O c’è altro, un livello più semplice ed elementare dell’essere che non è questo continuo rincorrersi di cause ed effetti?

Quello stato della forma più semplice di coscienza da solo
merita di essere visto, ascoltato, contemplato, realizzato
[È la citazione della Upanisad letta da Lynch con cui si apre il film]

La malattia di Lotje Sodderland, e il film che la documenta, ci pone davanti a questi interrogativi. Lotje percepiva il mondo come gli altri, ma a un certo punto, senza ragione, è caduta fuori dal bordo dello schermo cinematografico e, come la protagonista (le protagoniste) di INLAND EMPIRE, per guarire ha dovuto osservare se stessa dal di fuori e dentro uno schermo (in questo caso letteralmente, riprendendosi), consapevole che però a questa nuova se stessa proiettata manca una dimensione che prima sentiva di avere e dominare. Eppure ora se ne è aggiunta un’altra, di dimensione, che forse vede solo lei. Lotje così finisce per essere una “illuminata involontaria”, la cui lesione cerebrale ha squarciato il velo di illusione che nasconde la realtà.

E i sogni sembrano molto più reali, ora.

La Lost Girl guarda lo schermo in INLAND EMPIREIl cinema di Lynch negli anni è arrivato, tra le altre cose, a esplorare i meccanismi e gli inganni della mente portando lo spettatore a condividere, spesso inconsapevolmente, il punto di vista di personaggi che percepivano la realtà circostante (e se stessi) in maniera distorta. Pensiamo soprattutto a Lost Highway, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE, in cui la realtà “oggettiva” progressivamente si assottiglia (in ogni film sempre un pochino di più) e le proiezioni dei personaggi coincidono con la proiezione delle immagini del film viste dallo spettatore, ma a ben guardare tutto questo era presente fin dai corti (pensiamo a The Grandmother del 1970) e soprattutto in maniera chiara e compiuta a partire dal primo lungometraggio, Eraserhead, titolo che non a caso indica una mente che cancella… affine in questo a quella di Fred, a Laura Dern guarda se stessa in INLAND EMPIREquella di Betty/Diane e, per motivi del tutto diversi, a quella di Lotje. Analogamente My Beautiful Broken Brain, giocando a carte scoperte, ci invita apertamente a condividere la mente della protagonista, che è consapevole delle sue percezioni ingannevoli, e ci spinge a interrogarci sulla nostra esperienza, sulla nostra memoria e sul modo in cui percepiamo le cose.

Nell’immagine finale, Lotje, felice (a voi scoprire perché), è per la prima volta inquadrata come si vedrebbe lei – i colori, le luci – e il film si chiude con questa nota di speranza, accompagnata da una strana sensazione, perché i volti nella foto (o fermoimmagine) sono immortalati in una posizione che li cela in tutto o in parte allo spettatore, mentre Nina Simone (già, proprio lei) canta Ne me quitte Pass:

Non mi lasciare,
bisogna dimenticare,
tutto si può dimenticare…

Dimenticare queste ore
capaci di colpire a morte, a volte,
a forza di perché
il cuore della felicità…

Non mi lasciare,
inventerò per te
parole che non hanno senso
e che tu comprenderai…

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