Twin Peaks 3×08 “Gotta Light?”: un’interpretazione

di Matteo Marino
12 agosto 2017

Sappi che la Natura intera non è altro che un magico teatro,
che la grande madre è il demiurgo supremo,
e che la totalità del nostro mondo è popolata
dalla moltitudine delle sue parti

Upaniṣad

Puntata mitica, annoverata subito da molti tra i capolavori del piccolo schermo, la Parte 8 di Twin Peaks è emblematica sotto diversi aspetti: non soltanto dà una nuova dimensione alla serialità televisiva (sebbene ci siano già state altre opere di rottura in questo senso), ma riannoda anche i molteplici fili sottesi tra tv e cinema (la cosiddetta cinematic tv: una tv in cui regia, montaggio e messa in scena contano quanto se non più della parola e spesso l’impronta estetica di tutte le puntate è dettata dalla visione di un singolo autore), sconfinando però nei territori del cinema “puro”. Per la scarsezza dei dialoghi (tuttavia determinanti) e per il modo in cui privilegia i mezzi propri dell’audiovisivo – suono, luce, movimento e montaggio – Parte 8 è un nuovo capolavoro – e un nuovo capitolo – di quella che può essere definita “film-experience”. Attinge in tal senso sia alle ricerche sonore e ottiche dell’ultimo periodo del cinema muto (che già avevamo citato per la Parte 3) sia alle sperimentazioni degli anni Sessanta (il trip di 2001: Odissea nello spazio), fino ad arrivare alla moderna CGI. Incarna il sogno di un’opera assoluta, che mira a un’esperienza non-verbale e universale. È uno dei lavori più personali e audaci del suo regista e allo stesso tempo un’opera che ci parla in maniera straordinariamente forte della condizione umana.

Molti di voi saranno d’accordo: queste parole descrivono perfettamente le emozioni che abbiamo provato durante e dopo la visione della Parte 8. Tuttavia quella che avete letto finora (parafrasata e ricontestualizzata da me, sostituendo l’oggetto di osservazione e qualche altro piccolo particolare) è, quasi parola per parola, l’introduzione che il grande critico Michel Chion (autore di un bellissimo libro su David Lynch, tra l’altro) antepone al suo saggio “Un’odissea del cinema. Il 2001 di Kubrick”. Il modo in cui Chion descrive l’esperienza del capolavoro di uno dei registi preferiti di Lynch (“Stanley Kubrick è uno dei miei registi preferiti in assoluto” scrive Lynch stesso in In acque profonde) calza a pennello a Parte 8. E ricordiamo che Kubrick (autore tra l’altro, in un sontuoso bianco e nero, de Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba) considerava il lungometraggio d’esordio di Lynch, Eraserhead, il suo film preferito ed era solito proiettarlo a casa sua ad amici e collaboratori. Un cerchio si è chiuso.

Ma ora facciamo un passo indietro (o in avanti: è il futuro o è il passato?). Tutto è cominciato in una sonnacchiosa domenica estiva, quando Peter Deming, l’eccezionale direttore della fotografia di Strade Perdute, Mulholland Drive e del nuovo Twin Peaks, ha pubblicato sul suo instagram questo:

“Parte 8: come nessun’altra”. Della serie: come ti porto l’hype a livelli inverosimili. Ve lo ricordate, sì, con quale aspettativa ci siamo messi a vedere quella parte? E Peter Deming non ci aveva trollato: il giorno dopo #twinpeaks sarebbe stato trending topic mondiale su Twitter e ne avrebbero parlato e scritto tutti. Io sono riuscito solo a lasciare un paio di brevi impressioni (entusiastiche) su facebook, ma la puntata dovevo digerirla, una rana alata giù per il gozzo.

Twin Peaks The Return part 8


E mentre guardavo a bocca aperta praticamente tutta la puntata, la ragazzina in bianco e nero riaccompagnata a casa mi faceva pensare alla Dorothy in bianco e nero della prima parte del Mago di Oz, intenta stavolta a inghiottire la Metamorfosi di Kafka.  Problemi miei, fisse mie, può darsi. Ma c’era talmente tanta roba lì dentro (tanto Edward Hopper per esempio: la segretaria, la pompa di benzina…), e invidiavo ai miei colleghi l’abilità di stare subito sul pezzo con analisi interessantissime, di cui c’era estremo e urgente bisogno: tutti volevamo leggerne e parlarne. L’arte in tv aveva smosso gli animi come non succedeva da tempo. E poi c’era quell’altra faccenda: avevo gli occhi sazi. Per giorni non sono riuscito a vedere altro. Non me lo gustavo.

Poi pian piano una serie di idee che mi frullavano in testa (o che nuotavano in acque profonde, direbbe Lynch – o almeno spero che non sguazzassero in un piccolo pozzo – ma questo lo giudicherete voi tra poco) sono andate a comporre un disegno coerente, come tessere di un puzzle, e mi sono reso conto che ero in grado di avanzare un’ipotesi interpretativa che vorrei condividere qui con voi per la prima volta. Ha a che fare con l’Advaita Vedanta, le scarpette rosse del Mago di Oz e il tema del nostos.

EDIT: un’ipotesi che l’anno dopo avrei approfondito qui, non soffermandomi sul solo Twin Peaks:

Il νόστος (che significa “ritorno a casa”) pare sia un topos nato per dare un seguito alle vicende della guerra di Troia (in parte narrate nell’Iliade): Nostoi si intitola un poema andato perduto incentrato sul tema del ritorno dei Greci in patria dopo la distruzione di Troia (in particolare Agamennone e Menelao), mentre il nostos per eccellenza è l’Odissea di Omero, che narra delle peripezie di Ulisse per raggiungere Itaca. I nostoi implicano dunque un epico viaggio di ritorno a casa, spesso dopo una dolorosa guerra, spesso via mare, durante il quale gli eroi affrontano una serie di incontri e di prove (Ulisse attraversa addirittura le regioni ctonie dell’Oltretomba prima di tornare a casa) per raggiungere l’agognata meta.

3x08 Welcome back

Dalla poesia alla pittura alla fantascienza, il tema del nostos si è rivelato attivissimo lungo i secoli,  inteso sia alla lettera come viaggio di ritorno (come nella serie tv Star Trek: Voyager, su un’astronave scaraventata a più di 70.000 anni luce dalla Terra e sul suo tentativo di fare rotta verso casa) oppure come metafora di un ritorno alle origini (il primitivismo di Paul Gauguin, per esempio) o di un viaggio interiore verso il proprio sé più profondo o perduto (il “ritorno in sé” dell’Orlando furioso grazie ad Astolfo che recupera il suo senno finito in un’ampolla sulla luna – qualcuno ha detto Dougie Jones?): pensiamo al viaggio ultraterreno (e mentale) di Dante Alighieri nella Divina Commedia, che si conclude con la visione trascendente dell’amor che move il sole e l’altre stelle; all’Ulisse di Joyce; a Milton che in Paradiso Perduto e Paradiso riconquistato mette in versi la cacciata dall’Eden, la “casa” di Adamo ed Eva e quindi la casa irrimediabilmente perduta dell’umanità tutta, e la speranza di poterci tornare in qualche modo, ma anche di poter trovare “un paradiso dentro di sé”; pensiamo ai nostoi incastonati nella narrazione de Il Signore degli anelli e de Il trono di spadeStanley Kubrick richiama direttamente nel titolo del suo 2001 il nostos omerico (Odissea nello spazio), contrapponendo il ciclopico Hal 9000 a un moderno Ulisse spaziale che torna trionfalmente sulla Terra come Feto Astrale  – dopo però essere invecchiato in una camera stile Régence (l’approdo a questa stanza che si trova oltre Giove e oltre l’infinito possiamo considerarlo un falso ritorno a casa), “una sorta di gabbia da zoo fabbricata in suo onore a partire dalle immagini della cultura umana captate dagli extraterrestri, affinché possa viverci – ed essere osservato – senza sentirsi spaesato”, scrive Chion. La waiting room che appare a Dale Cooper e ai suoi ospiti umani come un salotto di casa ha forse una funzione simile? È stata fabbricata di proposito con queste caratteristiche (poltrone, tavolini da caffè, lampade, statue, tende) dagli abitanti della Loggia per accogliere gli esseri umani?…

Waiting Rooms: la camera stile Régence di 2001: Odissea nello spazio e la Red Room di Twin Peaks, spazi oltremondani a misura d'uomo

Waiting Rooms: la camera stile Régence di 2001: Odissea nello spazio e la Red Room di Twin Peaks, spazi oltremondani a misura d’uomo

Anche Il Mago di Oz (il libro di L. Frank Baum ma soprattutto la sua versione cinematografica del 1939) si configura come nostos. Racconta la fuga (psicogena?) e il tentativo di tornare a casa di Dorothy Gale, una ragazzina che vive con gli zii in una fattoria in bianco e nero del Kansas e finisce catapultata oltre l’arcobaleno, a causa di un tornado, nel meraviglioso techinicolor del mondo di Oz… Ma “there’s no place like home”… Il Mago di Oz è uno dei film più citati da Lynch nelle sue opere, consapevolmente e inconsapevolmente (le scarpette rosse di Lula e di Audrey, la ricorrente figura del nano come nani sono i Mastichini,  il sogno compensatorio e il Mago di Mulholland Drive… e l’elenco potrebbe continuare).

Wizard-of-Oz-tornado

E indovinate quale foto di scena è appesa in uno dei luoghi in cui Lynch dipinge abitualmente?

David Lynch e Il Mago di Oz (fotogramma tratto da The Art LIfe)

David Lynch e Il Mago di Oz (fotogramma tratto da The Art LIfe)

Ingrandiamo un po’.

3x08 (ingradimento fotogramma tratto da The Art LIfe)
A Lucca, dove Lynch ha presenziato il 22 giugno alla proiezione su grande schermo delle prime due parti del nuovo Twin Peaks, ho avuto l’opportunità di rivolgergli una domanda a questo proposito. Mai avrei immaginato che la risposta, apparentemente laconica, sarebbe stata così illuminante.

Ho visto The Art Life, questo bellissimo documentario in cui lei ci fa il regalo di farci entrare nel suo studio da pittore e vedere lei mentre dipinge e crea. Ho notato che, nello studio, c’è appesa la foto di un film in particolare, accanto all’insegna stradale di Mulholland Drive. Il film è Il Mago di Oz. È un film che lei ha citato esplicitamente, per esempio in Cuore Selvaggio, e che troviamo in molti altri suoi film implicitamente, come in The Straight Story. Questo è un film sul sogno. La mia domanda è: qual è il suo legame con Il Mago di Oz?

Lynch: Io non so che cos’è che mi attrae del Mago di Oz… Ma credo che la chiave sia la ricerca della strada per tornare a casa.

***

HOME. Sentite come sottolinea questa parola. La stessa che ripete a un certo punto Dougie/Cooper [sottotitoli in italiano opzionabili].

È un viaggio che stiamo facendo tutti, Dale come personaggio, Lynch come regista e autore dopo un decennio che non girava da INLAND EMPIRE, e noi come spettatori. Stiamo tutti tornando a casa, dopo 27 anni.

Il giorno dopo, Giuseppe Videtti intervista Lynch per Repubblica. Sono lieto che la mia domanda gli sia piaciuta. Infatti chiede a Lynch:

Perché tanto amore per il film Il mago di Oz? È l’unico manifesto di cinema appeso nel suo studio di pittore.
Mi affascina l’idea della ricerca della strada di casa.

E poi, trovandosi a quattr’occhi con lui, può permettersi la seconda domanda, quella che di solito fa la differenza nelle interviste.

Lei l’ha finalmente trovata?
Sì, attraverso la Meditazione. Siamo scintille della fiamma divina, siamo usciti e ci siamo persi, e ci è piaciuto, ma sappiamo che il nostro obiettivo finale è trovare la strada di casa – il figliol prodigo torna sempre, e quando riappare si fa festa. Tornare a casa vuol dire illuminazione suprema, scoprire chi siamo davvero. È un meraviglioso viaggio da affrontare insieme, non importa di che religione siamo o qual è il colore della nostra pelle o che lavoro facciamo.

Per inciso, la parola Home non trovate abbia qualche assonanza con il classico mantra Oṃ della dottrina indù?

“Siamo scintille della fiamma divina, siamo usciti e ci siamo persi”… A qualcuno queste parole risulteranno familiari. Quello a cui Lynch fa riferimento è l’Advaita Vedanta, una plurisecolare posizione filosofica che si basa sul principio della sostanziale unità dell’essere, il substrato metafisico di tutto ciò che esiste, il quale sarebbe all’origine e alla fine di tutto, la casa da cui tutti siamo partiti e a cui tornare. Questa casa è il Brahman (la realtà trascendente) che è indivisibile dall’Ātman (il Sé individuale), “come l’aria dentro la brocca è identica e indivisibile dall’aria fuori della brocca” (così ci dicono le Upaniṣad, che Lynch cita spesso all’inizio dei capitoli del suo In acque profonde: la citazione all’inizio di questo articolo è tratta proprio dal libro di Lynch).  Se Twin Peaks è doppio fin dal titolo (Cime gemelle), l’Advaita ci dice che questo dualismo è illusorio (Advaita significa proprio “non duale”): semplicemente, quello che noi viviamo è coperto dal velo di Maya che ci illude esista una molteplicità, cioè una realtà frammentata ed esplosa nei molti, mentre l’unità è l’unica realtà dell’essere. La nostra anima, che è consustanziale a questo Uno trascendente che abbiamo chiamato il Brahman, è in esilio, vittima dell’illusione (“Silencio… No hay banda… È tutto registrato… È tutto un nastro… È solo un’illusione”). Quello che possiamo fare è ritornare a casa, ossia ritornare all’esperienza della realtà com’è (Una). Un po’ quello che Plotino chiamava l’epistrofè, cioè il ritorno all’Uno, al Principio da cui sono derivate le molte cose che sono (sì, anche noi occidentali abbiamo una lunga tradizione monistica, cioè non duale, che parte da Parmenide e arriva a Emanuele Severino). Secondo Plotino e i neoplatonici, una volta che c’è stata la scissione dell’Uno, cioè l’emanazione dell’Uno nei diversi gradi della realtà (ipostasi), ogni nuova emanazione è un po’ meno “reale”, e quindi più soggetta al male, inteso come “mancanza di essere” (concetto ripreso poi da Sant’Agostino, che definisce il male come “assenza di bene”; Diane a Gordon parlando di Bad Cooper dice: “Non è il tempo che è passato, o quanto è cambiato, o l’aspetto che ha ora… c’è qualcosa che decisamente gli manca, dentro…”)… Similmente, per il Vedanta la realtà che vediamo è soggetta alla sofferenza, cioè al male, perché è un’illusione.
Se la realtà molteplice che percepiamo è un’illusione e se il Brahman è ineffabile, cioè è impossibile da descrivere a parole, è possibile tuttavia cercare di averne esperienza tramite un percorso di consapevolezza (per esempio tramite la meditazione) e c’è chi sostiene che le scoperte della fisica quantistica siano coerenti con la visione dell’Advaita, suggerendo che l’architettura dell’Universo appaia come un’Unità che si dispiega come moltitudine.

Scrive Lynch:

“Che fesserie, cercano un campo a fondamento di tutto, ma mica esiste; nessuno sa se esista davvero”. Una trentina d’anni fa, invece, la fisica quantistica lo scoprì. Come? Penetrando a fondo nella materia, sempre più a fondo; e un giorno, eccolo: il “campo unificato”. In seguito, scienziati come il dottor John Hagelin confermarono che non si trattava di un’invenzione: ogni singola cosa esistente proviene da questo campo.
La scienza moderna e quella antica si stanno quindi riconciliando. (…) La meditazione trascendentale è una tecnica semplice e comoda che permette a ogni essere umano di immergersi senza alcuno sforzo in se stesso, di sperimentare i livelli più profondi della mente e dell’intelletto e di entrare in quest’oceano di coscienza pura, il “campo unificato”: il Sè. Il punto fondamentale è entrare in contatto con il campo, non tanto comprenderlo razionalmente.

Lynch sembra quindi dire che, allo stesso modo in cui gli scienziati, penetrando nella materia, hanno trovato il campo unificato, ognuno di noi, penetrando dentro se stesso (nell’Ātman), può sperimentare l’unità fondamentale con il Brahman. Anche se le conclusioni della scienza sono molto meno univoche di quelle che riporta Lynch, l’orizzonte filosofico in cui si muove e che qui ho semplificato (con l’aiuto del mio mitologo personale Stefano Ventura) è questo.

Rimanendo in ambito filosofico indiano, quella che segue è un’altra citazione posta all’inizio di In acque profonde. Stavolta è tratta dal Bhagavadgītā, uno dei testi religiosi più famosi in ambito viṣṇuita, e alla luce di quanto abbiamo detto è chiara l’interpretazione che ne dà Lynch:

Colui la cui felicità è dentro di sé, il cui appagamento
è dentro di sé, la cui luce è tutta dentro di sé, quello yogi, essendo uno
con il Brahman, raggiunge la libertà eterna nella coscienza divina.

Indovinate chi altri cita il Bhagavadgītā?

In un’intervista rilasciata dopo il Trinity Test del 16 luglio 1945, ossia il primo test nucleare della storia – proprio lo stesso test a cui assistiamo nella Parte 8, con tanto di data e luogo in sovraimpressione -, il fisico statunitense Julius Robert Oppenheimer, che il Governo degli Stati Uniti aveva messo a capo del Progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica, pronuncia la frase, da allora divenuta celebre, “Sono diventato Morte, il distruttore di mondi”, presa dal Bhagavadgītā.

Il testo completo dell’intervista è il seguente:

«Sapevamo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero, i più rimasero in silenzio. Ricordo il verso delle scritture Indù, il Bhagavadgītā. Vishnu tenta di convincere il Principe che dovrebbe compiere il suo dovere e per impressionarlo assume la sua forma dalle molteplici braccia e dice: “Adesso sono diventato Morte, il distruttore dei mondi”. Suppongo lo pensammo tutti, in un modo o nell’altro.»

«We knew the world would not be the same. Few people laughed, few people cried, most people were silent. I remembered the line from the Hindu scripture, the Bhagavadgītā. Vishnu is trying to persuade the Prince that he should do his duty and to impress him takes on his multi-armed form and says: “Now I am become Death, the destroyer of worlds.” I suppose we all thought that, one way or another.»

Pochi giorni dopo, su decisione dell’allora presidente degli Stati Uniti d’America Harry Truman, l’aeronautica statunitense sganciò la bomba atomica “Little Boy” su Hiroshima.

Il Trinity test è stato il momento in cui “il genio è uscito dalla bottiglia”, come si dice negli Stati Uniti. Lynch e Frost prendono alla lettera questo modo di dire e pongono la prima bomba atomica all’origine (apparentemente) del male nella mitologia di Twin Peaks: le energie sprigionate sembrano creare un varco interdimensionale attraverso cui una “Madre” (chiamata nei titoli di coda Experiment, in tutto e per tutto somigliante all’essere che appare nella teca di vetro all’inizio della terza stagione) vomita sul mondo delle uova e altri bozzoli… tra cui vediamo chiaramente BOB. Questo varco non sarebbe solo spaziale, ma spaziotemporale – il che spiegherebbe la presenza di elementi della mitologia di Twin Peaks nella Storia ben prima del Trinity Test (come appare nel libro di Mark Frost “Le vite segrete di Twin Peaks”). Ma sono solo ipotesi.

Soffermiamoci invece ad analizzare più da vicino la sequenza della bomba atomica. Sempre più da vicino.

3x08 La bomba

Andiamo oltre la formidabile riuscita formale di questo pezzo di videoarte (da mandare in loop su schermi giganti ad altissima risoluzione come installazione artistica), una sinestesia che unisce la “Trenodia per le vittime di Hiroshima” del compositore polacco Krzysztof Penderecki (trenodia deriva da thrênoi, i canti funebri dell’Antica Grecia), immagini in computer grafica, immagini astratte ottenute con tecniche miste, onde che sembrano fuoco, fuoco che sembra acqua, buchi di colore che squarciano il fumo… Andiamo oltre il fatto che questo trip audiovisivo non si “limita” a bombardarci di sensazioni e a condurci in zone del tutto inedite per il mezzo televisivo ma riesce anche a portare avanti la trama, anzi indietro, funzionando perfettamente (ancorché misteriosamente) come storia di origini (il convenience store, la fuoriuscita di BOB e la “creazione” di Laura Palmer – una delle scene più toccanti e surreali viste finora, un Dune sognato da Fellini). 3x08 La creazione di Laura PalmerAndiamo oltre tutto questo, andiamo anche oltre l’utilizzo dell’esplosione della prima bomba atomica come ovvia metafora del male creato dall’uomo (rileggete il libro di Mark Frost con la Parte 8 in mente, troverete diversi accenni alla bomba e all’energia nucleare, e ai tentativi di aprire un varco dimensionale per evocare la dea Babalon, conosciuta come “La madre degli abomini”…). Andiamo ancora più in profondità e spogliamoci dunque dei riferimenti storici e delle implicazioni etiche che riguardano l’arma di distruzione di massa per eccellenza: se riusciamo ad andare oltre tutte le sovrastrutture, il tuffo che ci fa fare la regia di Lynch in questa esplosione di energie senza precedenti nella storia dell’uomo (e della televisione) diventa, presa più alla lettera, la rappresentazione artistica di una scissione emblematica… Una bomba atomica che cos’è, d’altro canto? È una divisione. Nasce dalla fissione, dalla divisione dell’atomo. “In fisica nucleare la fissione o scissione nucleare è un processo in cui il nucleo di un elemento chimico pesante decade in frammenti di minori dimensioni, ovvero in nuclei di atomi a numero atomico inferiore, con emissione di una grande quantità di energia e radioattività.” È l’esatto contrario della ricerca dell’unità. Se l’Uno è il Bene, questo tipo di divisione è il Male. E la fissione nucleare è una perfetta visualizzazione per una divisione che origina il male.

Mi spingo più in là: credo che l’estrema e insistita frammentazione narrativa della terza stagione di Twin Peaks, l’allontanarsi geografico della storia dal suo nucleo twinpeaksiano, la moltiplicazione dei personaggi, la dilatazione della trama in un film di 18 ore con scene che spesso possono essere capite e riallacciate soltanto dopo settimane, il cambio continuo di registro, la rarefazione della musica, credo che tutto questo sia un’ulteriore rappresentazione artistica della divisione, così forte da farci anelare, nonostante le scene da antologia siano davvero tante (non mi stancherei mai di osservare la storia che si espande in modi inimmaginabili da quel nucleo originario di 27 anni fa), una ritrovata unità, un senso di ricomposizione, un ritorno a casa (Dale Cooper che si sveglia a Twin Peaks… non sarebbe meraviglioso?). A volte lo fa anelare dolorosamente, soprattutto ai più nostalgici delle atmosfere del Twin Peaks delle origini. Del resto la parola nostos è alla base della parola nostalgia, che significa letteralmente “il dolore del ritorno”. Perdersi in questo viaggio arrivando molto più lontano di quanto chiunque poteva immaginare solo pochi mesi fa è però meraviglioso, per me e per molti è un’esperienza straordinaria, non fraintendiamoci: siamo usciti e ci siamo persi, e ci è piaciuto, ma sappiamo che il nostro obiettivo finale è trovare la strada di casa.
Chi è che invece sta facendo di tutto pur di non tornare a casa? Mr. C., il Cooper cattivo nato proprio dalla scissione di Dale Cooper. E avrei molti altri interessanti esempi a sostegno di questa ipotesi, ma mi sono dilungato abbastanza, per ora. Ne riparleremo.

Twin Peaks – The Return non è quindi l’ovvio titolo di un sequel (The Return, appunto), un modo per distinguere le due passate stagioni da questa terza tutta nuova a distanza di anni, ma è un titolo-manifesto, programmatico, rivelatore, un titolo spoiler. Ci svela, nascondendolo in piena vista, il tema di quest’opera (almeno secondo questa interpretazione, ancora tutta da verificare), un tema che si ripete e si dipana a livello narrativo (il ritorno di Dale Cooper in sé e a Twin Peaks, sua casa elettiva), metanarrativo (il nostro ritorno a essere spettatori di Twin Peaks dopo 27 anni), strutturale (la frammentazione e rarefazione della trama e la moltiplicazione dei luoghi crea una tensione verso il ritorno – da parte dei personaggi e delle trame e sottotrame – alla mitica cittadina, in una ritrovata unità narrativa), nonché a livello esistenziale, spirituale e filosofico: il nostos dell’eroe con la sua crescita e il suo attraversamento delle zone oltramondane; il ritorno a un’unità perduta che è illimitato bene, illimitata intelligenza, illimitata pace e illimitato amore, da cui tutti proverremmo e a cui tutti tendiamo – un’epistrofè, il lieto fine di una storia che paradossalmente è iniziata – e non poteva che iniziare – come dualità: Twin Peaks.

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6 Commenti

  1. un piacere leggerti tutto! ti sei sbilanciato un po’ sulla speculazione filosofica a discapito del cinema ma hai dato solide basi per un’interpretazione coerente!
    devi scrivere in fretta, prima che il segreto venga svelato, una tua interpretazione su Audrey!

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