Una serata con David Lynch alla Festa del Cinema di Roma, parola per parola

di Matteo Marino
6 novembre 2017

Sabato 4 novembre è stata la giornata di David Lynch alla Festa del cinema di Roma. Prima la conferenza stampa, poi il Red Carpet, durante il quale Lynch ha firmato quanti più autografi e cimeli possibile in mezz’ora e ha risposto alle domande di giornalisti di tutto il mondo, infine l’Incontro Ravvicinato, durante il quale Lynch, di fronte a una sala gremitissima (e sì, ne serviva una molto più grande), è stato intervistato dal Direttore Artistico della Festa Antonio Monda e da Richard Peña, che è stato direttore del programma della Film Society of Lincoln Center (tra gli organizzatori del New York Film Festival e del New Directors/New Films Festival) e professore di Professional Practice alla School of The Arts della Columbia University.

Photo by Ernesto S. Ruscio/Getty Images

Io c’ero all’evento ed ecco che cosa è successo (quasi) parola per parola e video per video (scelti da Lynch), per coloro che non hanno potuto assistervi e per chi vuole ripercorrere quest’affascinante serata.

La formula era molto interessante. Tra una domanda e l’altra sono state proiettate delle clip scelte o approvate da Lynch tratte da Eraserhead (la cena col pollo “meccanico”), Velluto blu (Frank e la lettera d’amore), Strade perdute (la telefonata all’Uomo Mistero), Mulholland Drive (il provino di Betty), INLAND EMPIRE (i coniglietti), incredibilmente niente dal nuovo Twin Peaks. Poi è stata la volta di due opere d’arte scelte e commentate da Lynch (vedremo quali), e di tre scene da film che ama e che lo hanno ispirato: Lolita di Kubrick (la scena della partita di ping pong “romano” tra Peter Sellers e James Mason che, ma si sapeva già, sembra un doppelgänger di Ray Wise nel ruolo di Leland Palmer),   di Fellini (la scena onirica delle auto bloccate, che comprende un rumore sui vetri molto simile a quello che ritroviamo nell’ultimo Twin Peaks) e Viale del tramonto (quella in cui Norma Desmond riguarda i suoi film muti, e lì mi sono accorto, nonostante abbia visto Viale del tramonto una decina di volte, che INLAND EMPIRE cita a un certo punto proprio quella scena di Queen Kelly mostrata da Billy Wilder nel suo capolavoro, preghiera compresa)

Sappiamo bene che inizialmente hai studiato arte per diventare pittore, cosa che tra l’altro sei. La domanda è: prima di passare a girare film, nel momento in cui avevi cominciato a studiare arte, avevi già sviluppato un interesse per il cinema?

No. Non ero appassionato di cinema. Non andavo a vedere film. La mia più grande ispirazione è stata la città di Philadelphia. Ho amato Philadelphia probabilmente per le ragioni sbagliate: perché era sporca (risate dal publico), corrotta, violenta, sempre in preda al terrore. Amavo, insieme alla follia della città, anche la sua architettura, i suoi colori intensi, i suoi interni dai colori improbabili, le pareti verdi, le proporzioni strane delle stanze, i mattoni ricoperti di fuliggine, l’ambiente caratterizzato dalla presenza delle fabbriche, anzi è proprio da Philadelphia che ho sviluppato il mio amore per le fabbriche. Questo è il mondo che troviamo in Eraserhead.

Dune e Velluto Blu sono stati entrambi prodotti da Dino De Laurentis, ma con presupposti molto diversi: in uno non avevi il final cut…

Quando ho firmato il contratto per Dune, sapevo di non avere il final cut. Sapevo che non era la cosa giusta da fare, ma l’ho firmato lo stesso (risate dal pubblico). Quando arrivò il momento di girare Velluto blu, gli dissi che avrei potuto farlo solo se avessi potuto avere l’ultima parola sul montaggio. Dino me lo promise e mantenne la parola: Velluto blu l’ho girato e montato in assoluta libertà.

Qual è il processo di scrittura delle sceneggiature? E al momento in cui si gira il film, è concessa o incoraggiata l’improvvisazione?

No, nessuna improvvisazione, direi piuttosto prove. La ragione è che le idee arrivano nella tua testa, le puoi vedere sul tuo schermo mentale, le puoi ascoltare e sentire. Poi vanno tradotte in parole, e quando queste parole vengono rilette, l’idea dovrebbe essere restituita nella sua interezza. Ora, le idee arrivano in frammenti, è come se nell’altra stanza ci fosse un puzzle completo che tu non puoi vedere, e qualcuno improvvisamente ti lanciasse una tessera del puzzle, e tu appunti il contenuto di questa tessera, e da questi frammenti di idee poi nasce la sceneggiatura e successivamente il film. Questo significa che è necessario essere sicuri che la strada che viene percorsa durante la lavorazione del film sia rispettosa dell’idea originale, e per farlo è necessario che tutti quanti quelli che partecipano al processo creativo siano in sintonia con questa idea iniziale in modo che si possa tutti insieme camminare e raggiungere questo scopo.

A me questa sequenza tratta da Strade perdute fa paura. Mi spaventa. Vorrei sapere se spaventa anche te.

No. Mi piace avere ospiti a casa (risate e applausi).

Ci sono dei collegamenti tra i tuoi film?

Quello che posso dire è che Strade perdute, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE sono tutte storie di Los Angeles. Ecco il collegamento (risate).

So che c’è in preparazione una versione lirica di Strade perdute. Sei coinvolto in questo progetto?

È quel progetto polacco? No, forse no. Comunque, no, non sono coinvolto.

Che differenza c’è tra creare per il cinema e lavorare per la tv?

È esattamente la stessa cosa (applausi). Ma c’è una piccola differenza (risate). Quando crei per la tv, hai la possibilità di dare vita a una storia che continua. I film sono destinati a una conclusione. Certo, sappiamo bene che quando si lavora a un prodotto per la tv rispetto al grande schermo la resa della qualità visiva è minore, così come con il sonoro. Ma la buona notizia è che ogni giorno ci sono degli straordinari miglioramenti su questi fronti.

Quando uscì INLAND EMPIRE eri entusiasta delle possibilità del digitale rispetto alla pellicola. Cosa ne pensi oggi?

Credo che tutti saranno d’accordo con me se dico che la pellicola è meravigliosa. Tuttavia la pellicola è pesante, si sporca, si deteriora, si rompe, ed è di difficile gestione. Il digitale è sempre più vicino alla qualità, alla sensazione della pellicola, ma ti consente di fare un milione di cose dopo che hai girato. Questo significa che con il digitale si schiude un mondo meraviglioso, e sono molto soddisfatto di questa rivoluzione.

Questa possibilità di fare un milione di cose con il digitale, avvicina forse di più il cinema alla pittura?

Assolutamente. Tu puoi manipolare l’immagine come manipoli una tela. Sono giorni fantastici per il cinema.

Una decina di anni fa ebbi la fortuna di assistere a un incontro tra David Lynch e Bernardo Bertolucci. Ricordo che entrambi erano contrari all’alta definizione. E il motivo era che con l’HD si vede troppo, non puoi nascondere eventuali errori o lasciare un po’ di mistero. La pensi ancora così?

(Lynch è titubante) Adoro Bernardo Bertolucci (applausi). Ma non ricordo affatto questa conversazione (risate). Quello che posso dire è che molti pensano che il digitale sia troppo plastico e poco organico, ma adesso ci sono delle tecniche e delle cineprese che permettono di avvicinarsi moltissimo a una realtà organica, e puoi arrivare a ottenere esattamente le sensazioni che vuoi suscitare.

Giunge il momento di mostrare le opere d’arte scelte da Lynch.

Francis Bacon—Seated Figure, 1961

David, perché hai scelto questo quadro?

In realtà, non è proprio questo il quadro che avevo scelto (risate) ma amo moltissimo Francis Bacon. Per me è uno dei più grandi artisti in assoluto nella storia della pittura. Amo i fenomeni organici e amo la distorsione della figura umana. E questo è Francis Bacon. Quello che fa con i suoi punti lenti e i suoi punti rapidi e la fenomenologia organica è davvero straordinario per me.

Al tuo lavoro da pittore sono state dedicate mostre in questi anni, in tutto il mondo. Come la pittura si inserisce nei diversi modi in cui ti esprimi artisticamente?

Certe idee nascono per il cinema, ma altre arrivano per la pittura, altre per moltissime altre cose. Mi piace poter dipingere delle idee. A volte riesco a cogliere un’idea che mi entusiasma e a volte è possibile trasportarla su tela. Mi siedo a dipingere e mentre lo faccio avviene un’azione e una reazione, è uno scambio continuo. In questo momento devo dire che sono interessato alla pittura brutta, quella un po’ infantile. Mi piace molto, ecco.

Quando prepari una tua mostra, questa ha una qualche struttura, un filo narrativo, veniamo accompagnati lungo un percorso?

Vorrei poter dire sì, che c’è, ma in realtà no. Succede questo, a volte c’è un legame tra alcune opere che forma una specie di “unità familiare”, ma dopo un po’ che esploro una particolare linea, la esaurisco, e vado a cercare qualcosa di diverso, perché è proprio questa diversità che mi attrae.

The Illegal Operation, Edward Kienholz, 1962

 

Questa scultura invece l’hai scelta proprio tu. Si tratta di “The Illegal Operation” di Edward Kienholz.

Edward Kienholz è un altro che esplora i fenomeni organici in maniera meravigliosa. Mi piacciono le opere in tre dimensioni: spesso anche la mia pittura prevede dei fori in cui metto qualcosa, in modo che si possa procedere in profondità, oppure aggiungo qualcosa sulla superficie della tela, in modo che “esca fuori”. Credo che Kienholz sia uno dei più grandi in questo tipo di espressione”.

Non mi aspettavo che di Kubrick scegliessi questa scena e questo film. Alcuni dicono che lo straordinario talento di Kubrick sia un po’ rapito dalla presenza di Peter Sellers, come se lui in qualche modo se ne impossessi e lo trascini da una parte che Nabokov non avrebbe mai accettato.

Forse è vero, ma potremmo dire la stessa cosa di James Mason. Credo che questo di Kubrick sia un film straordinario sotto tutti i punti di vista, dalla recitazione alle scenografie, in ogni aspetto. Per me è un film privo di qualunque difetto e di qualunque debolezza dall’inizio alla fine. Lo amo, amo l’ossessione di James/Humbert, amo gli umori che evoca, i luoghi, la recitazione, l’evoluzione dei personaggi, come si evolve la storia. Trovo tutto bellissimo. Non ha importanza come si sia arrivati a questa bellezza, ma quello che conta è che ora abbiamo questo capolavoro. Io lo amo moltissimo.

In Viale del Tramonto c’è un personaggio che si chiama Gordon Cole. Un nome che hai utilizzato per il tuo personaggio in Twin Peaks (appalusi). Penso che Viale del tramonto sia uno dei film più belli di tutti i tempi. Il mio modo di vedere questo film è che sia semplicemente un film dell’orrore. C’è un uomo che entra in una specie di castello gotico e non ne esce vivo, perché c’è un mostro che prima o poi lo uccide. Ecco, già dice no… (risate)

Io lo vedo come un film triste, di desideri non realizzati. Posso raccontare una storia? È una storia che riguarda Gordon Cole. Gordon Cole è il mio personaggio in Twin Peaks (calorosi applausi).  In una scena di Viale del tramonto Cecil B. DeMille dice: “Chiamatemi Gordon Cole al telefono!”. Ecco, Billy Wilder, che per me è uno dei più grandi cineasti, lavorava agli studi della Paramount. Se uno percorre la Melbourne, oppure una qualsiasi strada a Los Angeles da est a ovest per arrivare alla Paramount, si incrociano immancabilmente due strade. Una si chiama Gordon, l’altra Cole. Secondo me, è da lì che Wilder ha tratto il nome del personaggio.

Perché sei innamorato di Viale del tramonto?

Billy Wilder era tra le altre cose straordinario per il suo senso dei luoghi. Guardiamo questa casa. È una casa bellissima, con una sua personalità, che crea sensazioni che ci riportano all’era d’oro del cinema. Ancora una volta, anche se è in decadimento… è sempre il fenomeno organico che mi affascina. La bellezza della casa è indubbia, nelle superfici del posto, gli arredi, i vestiti, e quella musica… ogni cosa contribuisce a farmi sentire una potente sensazione. E tutti in questo film desiderano qualcosa in un anelito che non viene mai soddisfatto.

Molti critici hanno sottolineato il legame che c’è tra sogno e cinema. Per me pochi film esplorano questa connessione altrettanto bene di come riesce a farlo Muholland Drive. Puoi parlarcene?

(lunghissimo silenzio, qualche risata dal pubblico) Amo i sogni, amo quella che chiamo la logica dei sogni, e il cinema è in grado di esprimerla. Quando noi vediamo qualcosa, sentiamo qualcosa, a volte intuiamo il suo significato ma non siamo in grado di esprimerlo a parole. Invece questo può essere fatto proprio con il linguaggio del cinema. Ho già detto che amo sia le astrazioni sia le cose concrete. Amo le storie che hanno entrambe queste qualità, concretezza e astrazione. A volte hai delle sensazioni, dei pensieri che ti permettono di conoscere qualcosa ma che sono difficili da esprimere. È un po’ come quando cerchi di raccontare un sogno a un amico, può ascoltarti, però l’esperienza non l’avrà mai. Col cinema puoi far vivere quell’esperienza.

Una domanda e una risposta che si legano benissimo all’ultima clip, tratta dal film di un regista che come pochi ha trattato il mondo dei sogni.

Federico Fellini, per te. In cosa ti ha ispirato?

Fellini è uno dei più grandi maestri di cinema di tutti i tempi. Mi ha sicuramente ispirato. Per me i film di Fellini sono delle opere d’arte.

Lo hai mai incontrato?

L’ho incontrato due volte. Una notte ho cenato insieme a Silvana Mangano, Isabella Rossellini, Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Tutta la cena era a base di funghi, che erano evidentemente di stagione, da funghetti minuscoli ad altri grandi come bistecche. Durante la cena dissi a Marcello che ero davvero appassionato di Fellini e il giorno dopo una macchina mi venne a prendere perché avevano organizzato una giornata intera che ho potuto passare con Fellini a Cinecittà. All’epoca a Cinecittà Fellini stava girando L’intervista e il direttore della fotografia era Tonino Delli Colli. Mi ricordo che andammo a colazione e c’era una donna con un seno gigantesco (unisce le mani davanti al petto e allunga le braccia, a mimare una donna molto molto prosperosa, facendo scoppiare il pubblico in una sonora risata)

Come in un film di Fellini.

Esattamente! Anni dopo ero a Roma per girare uno spot per la pasta Barilla. Era il 1993. C’era di nuovo Tonino, e parlando mi disse che Fellini era ricoverato in ospedale, però al nord, e si stava ipotizzando di trasferirlo in un ospedale a Roma. “In tal caso pensi che possa andarlo a salutare?”. “Perché no”. Così accadde. Fu trasferito, e dovevamo andare a trovarlo giovedì sera, ma poiché doveva fare delle analisi rimandammo al giorno dopo. Mi ricordo che era una serata romana molto calda e c’erano la nipote e Tonino. Percorremmo un corridoio e la nipote si informò se potevamo entrare nella stanza dove era ricoverato Fellini. Entrai, c’erano due letti singoli, e nel mezzo Federico Fellini su una sedia a rotelle con un tavolino davanti. C’era lì un giornalista di nome Vincenzo [Mollica]. Tonino e lui si conoscevano. Io mi sono messo a chiacchierare con Fellini mentre Tonino si è messo a chiacchierare con Vincenzo. Gli ho tenuto la mano, abbiamo parlato per mezz’ora. Lui mi raccontò di come quello che stava accadendo nel mondo del cinema lo intristiva. Si ricordava di quando, scendendo a fare colazione, gli studenti e appassionati di cinema ne parlavano con grande entusiasmo, ma poi via via questo entusiasmo si è trasferito alla tv e poi piano piano si è resoconto che i giovani non parlavano più di cinema, se ne erano come dimenticati, e questo gli metteva una certa tristezza. Lasciando la stanza gli dissi che tutto il mondo stava aspettando il suo prossimo film. Lui mi risposte con questo gesto [porta alla fronte la mano destra come in un saluto militare]. Quando vidi Vincenzo molti anni dopo, mi disse che quando era uscito Fellini gli ha detto: “Questo è un bravo ragazzo”. Domenica Fellini sarebbe entrato in coma, e non si sarebbe più svegliato.

È arrivato il momento di invitare sul palcoscenico, per consegnare il premio alla carriera a David Lynch, Paolo Sorrentino.

Paolo Sorrentino:  Sono molto onorato. Ho la febbre, ma sarei venuto anche in barella. Sono molto onorato di poter dare questo premio al Maestro Lynch, che ritengo abbia spiegato una cosa molto profonda, che l’ignoto e l’inconoscibile sono dentro di noi e che il mito di conoscere se stessi è appunto un mito, e i suoi film secondo me dicono questo.

Photo by Ernesto S. Ruscio/Getty Images

Durante l’incontro, come dicevo, nessuna domanda su un’eventuale quarta stagione di Twin Peaks, ma neanche un accenno alla stagione 3 (quanto ci sarebbe piaciuto vedere su grande schermo una clip tratta dalla Parte 8 e sentirne Lynch parlare!). Ma nella conferenza stampa qualcuno gli ha fatto la fatidica domanda.

Mr Lynch, grazie per essere tornato a Twin Peaks. Ha intenzione di andare avanti, di fare qualcos’altro su Twin Peaks?

(piccola pausa) Credo che sia troppo presto per dirlo.

[Il che non significa che sia troppo presto per pensarlo…]

Una delle riflessioni più belle durante la conferenza con i giornalisti per me è stata questa:

Lynch: “Quest’idea dell’artista che soffre è solo uno stereotipo, un ideale del romanticismo. Non è necessario soffrire: è necessario comprendere la sofferenza. Se le persone sono depresse a malapena hanno le energie per uscire dal letto, figuriamoci per lavorare. Bisognerebbe invece essere felici, godere di quello che si fa e avere buoni rapporti con gli altri. Il mondo dovrebbe apprezzare le cose belle, a cominciare dal buon cibo e dal buon caffè italiani!”.

Un ottimo resoconto della conferenza stampa lo trovate qui.

Per quanto mi riguarda, la serata si è aperta e conclusa nel migliore dei modi: incontrando altri fan di Lynch che sono lettori del sito e/o membri dei gruppi facebook che co-amministro (è stato emozionante dare un volto e una voce ad alcuni autori dei meravigliosi commenti e post che ci hanno accompagnato durante la visione della terza stagione), o amici che rivedo di festival in festival.

Dorothy Vallens di Velluto blu e Matteo Marino alla Festa del cinema di Roma

Il che ha portato a una sessione di Twin Peaks 2017 – Italia e di Club Silencio – Italia (che presto ospiterà le riflessioni sul libro Final Dossier di Mark Frost appena uscito in Usa e previsto per il 5 dicembre in italiano) ma stavolta dal vivo, alla Festa del Cinema di Roma, post Lynch. Avremmo potuto continuare a parlare del finale fino all’alba! È stato bellissimo.

Grazie a chi si è unito per un aperitivo e a chi è passato per un saluto. Spero con tutto il cuore che tra i membri dei gruppi e tra i lettori ci sia qualche fortunato e perseverante che sia riuscito a farsi firmare un cimelio da Lynch, o a fotografarsi insieme a ui.

Ora mi rimetto a leggere Final Dossier (sono a metà dell’opera), a lavorare ad altri pezzi per il sito e a scrivere il libro su Lynch su cui mi sto concentrando in questi mesi. Lynch ama le storie che continuano. Anch’io!

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Un commento

  1. Pensare che ero li dalle 3 di pomeriggio e non ho parlato con nessuno, non sono riuscito a farmi autografare nulla e sono ritornato a casa il giorno dopo prendendo solo un sacco di acqua unita al rammarico.

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